Non-sognare durante il lockdown

Ieri notte ho sognato che il nome comune con cui indicare i caprioli era “aldo”. Nel sogno, tanto per esemplificare, sarebbe stato del tutto usuale sentirsi raccontare dal collega del lunedì mattina che, nel tal posto sui monti, con un’oretta di camminata (“ci arrivano anche i passeggini, nel caso…”) è possibile vedere aldo che salta sulle rocce. Oppure ricevere da qualcuno un invito alla prudenza sulle tal strade tra i boschi poiché lì, sovente, c’è aldo che invade la carreggiata per rincorrere le femmine.

Queste esemplificazioni le aggiungo ora, da sveglio, visto che il sogno si limitava alla consapevolezza implicita, ma non utilizzata, che i caprioli si chiamassero aldo, senza che, per l’appunto, ci fossero circostanze reali che richiedessero l’applicazione del vocabolo. Intendo dire che lo sfondo del sogno era realistico e tremendamente comune fino alla banalità: nel sogno c’ero io che stavo sognando di sapere questa cosa, pur sapendo che saperlo mi era al momento del tutto inutile.

Insomma, era un sogno privo di qualunque sfondo narrativo. Nessun personaggio, nessun principio di azione, nessun dramma. C’era una grande calma, appena disturbata da quella leggerissima confusione semiologica sullo fondo, già di per sé poco grave ma resa del tutto innocua dall’effettiva assenza di caprioli nel sogno stesso.

Anzi, a essere sincero, era uno di quei sogni che fai con la consapevolezza rassicurante che tanto è solo un sogno. Un lato di me stava lì, sapendo di sapere che i caprioli si chiamano aldo e intanto la classica vocina rassicurante che interviene negli incubi (la mia coincide con la voce fuori campo di Patrizio Roversi in “Turisti per Caso”) alleggeriva l’intensità onirica contestualizzando la faccenda: “E’ solo un sogno; non farne un caso. Tra poche ore ti risveglierai e il nome comune con cui indicare i caprioli sarà ‘caprioli’ mentre ‘Aldo’ sarà il nome proprio con cui si indicano certi individui”.

Dopodiché la vocina rassicurante ha aggiunto che in genere, a quel punto, lei consiglia di approfittare della consapevolezza di essere in un sogno per esplorare azioni che nella vita reale non oseremmo compiere; tuttavia ha ammesso che in quel frangente particolare c’erano così pochi stimoli (a ben pensarci era un sogno privo di contenuto manifesto) che in tutta franchezza non sapeva proprio quale gesto liberatorio consigliarmi. In effetti non aveva alcun senso provare a volare, né spogliarmi nudo, né gridare frasi nella folla o cose simili, poiché non c’erano cieli, né abiti, né folle. Tutto quello che, eventualmente, avrei potuto fare sarebbe stato gridare “aldo! aldo!” se avessi avvistato un capriolo, ma non c’erano caprioli. Così la vocina rassicurante ha iniziato a lasciare intervalli di silenzio sempre più lunghi e un po’ imbarazzati, fino a che non ha ammesso che ci trovavamo in una circostanza talmente scialba che non sapeva che altro dirmi, ma che, per suo conto, non eravamo tenuti a parlarci per forza.

Okay, d’accordo.

Così siamo rimasti in silenzio: io e la voce rassicurante di Patrizio Roversi, in quell’oceano di calma in cui nessun capriolo minaccia di irrompere sulla tua carreggiata poiché non esistono caprioli, né carreggiate, né mete da raggiungere.

Certi sogni ti fanno pensare.

La satira fa schifo

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Forse qualche ragione ce l’aveva, il tanto bistrattato Daniele Luttazzi. Almeno quando parlava di una satira che sta diventando un fenomeno fascistoide.

Un esempio tra gli altri: l’altrettanto bistrattato Schwazer.  Cinque minuti dopo che la Gazzetta aveva pubblicato la notizia della sua positività a un test anti-doping,  già noi, sulla rete, abbiamo iniziato a sgomitare per cercare la battuta migliore. In poche ore abbiamo rovesciato sul web migliaia di frasi a ritmo che veicolavano l’immagine di Schwazer come drogato cronico.

Ora, a distanza di settimane, su Repubblica compare un video-inchiesta che mette profondamente in discussione quella verità. Salta fuori che probabilmente una forma di potere esigeva, proprio in un suo disegno di potere, che tutti bollassero Schwazer come drogato cronico. Farci vedere Schwazer come un drogato cronico era il modo con cui quel potere esprimeva se stesso in quanto potere.

http://video.repubblica.it/sport/operazione-schwazer-le-trame-dei-signori-del-doping/248406?ref=HRER1-1

Se così fosse, con le nostre battute abbiamo detto quello che il potere voleva che dicessimo. Noi – i libertari, gli anarcoidi, gli spregiudicati – abbiamo appiccicato sulla vittima quelle rappresentazioni tramite le quali il potere intendeva far di lei una vittima sacrificale.

D’accordo, non l’abbiamo fatto per scelta. Dipende da come la satira oggi viene prodotta. Esce la prima soffiata su Schwazer tossico, pochi minuti dopo lui afferma che a Rio ci andrà lo stesso. Noi sentiamo un fulmine nella pancia: quanti secondi abbiamo per essere, proprio noi!, i primi a pubblicare sui social la battuta di Schwazer talmente bombato che, a Rio, ci sta già andando a nuoto?

Sta di fatto che quell’immagine è così nitida da radicarsi immediatamente, e definitivamente, nell’immaginario collettivo. Un potere comunicativo che non avrà mai un’inchiesta che, con la pazienza delle settimane successive, scava in una verità intricata. Insomma: finisce che quel potere ha vinto proprio grazie alla satira. Ovvero: a un’intelligenza che, stupidamente, si è messa a servizio della violenza. A una creatività che, superficialmente, ha servito le intimidazioni e gli interessi del potere.

Prima o poi, amici satiri, dovremmo ammetterlo: questa maniera di far la satira su internet non funziona più. Ci ha liberati all’inizio, ma adesso ci sta portando dove il potere vuole che andiamo. Se avessimo fatto satira così nell’Atene classica, avremmo fatto battute dalle quali Socrate emerge come un empio che corrompe i giovani. Saremmo stati condannati dalla storia come uomini della nostra epoca. Imprigionati in quei luoghi comuni e in quegli inganni. Voci idiote nella fitta sassaiola dell’ingiuria.

Che in effetti è quello che ha fatto Aristofane. Quindi, boh. Forse è giusto così. Forse è proprio la satira che spesso deve far cagare i maiali.

 

 

Coincidenze.

i pugnalatori

E’ successo ieri, verso l’inizio della mattinata. Stavo guidando quando, improvvisamente, mi sono trovato a pensare a lui. L’avevo incontrato tre o quattro estati fa, al mare, e, al ritorno, ci eravamo scritti qualche volta. Per quanto poco ci conoscessimo, almeno per un paio di mesi ci eravamo considerati amici. Poi l’avevo completamente rimosso.

Chissà perché m’è tornato in mente?

Ma quel che era veramente frustrante è che non riuscivo a ricordare il suo nome. Mi spremevo le meningi, riuscivo a farmi tornare alla mente la sua voce, il nome della sua ragazza, il fatto che lei fosse di Ravenna e lui di Lugo. Addirittura riuscivo a ricordare la maglietta viola con cui scendeva in spiaggia alla mattina.

Ma, del suo nome, niente.

E sì che per scherzare lo chiamavo con nome e cognome. Secco.  Dicevo: “Deh, Andrea Pradella (nome fittizio, non ricordandomi quello vero), com’è pensare che da dopodomani sarai in ufficio?” E lui si voltava verso la spiaggia, con la pancia ritratta per le onde che lo spruzzavano, e sbuffava: “Elia Rossi, ma tu mi vuoi proprio rovinare gli ultimi giorni?”

Nel corso della giornata mi sono ritrovato a pensarci altre volte. Chissà perché, dopo quattro anni, proprio oggi m’è tornato in mente? E, maledizione, come cavolo si chiamava? Forse Alberto qualcosa.

Va be’, lasciamo perdere. Però, strano.

Poi, ieri sera, mi stavo mettendo a leggere. Ho cercato il libro che avevo interrotto a metà la sera prima, Una stagione selvaggia, di Lansdale. Ma subito mi sono ricordato che l’avevo lasciato in macchina. E non mi andava di uscire a prenderlo. Così ho pensato di pescare qualcosa dalla libreria. Un libro che fosse breve, giusto per riempire la serata e poter ritornare a Lansdale il giorno dopo, senza lasciar nulla in sospeso.

Mi è capitato tra le mani I pugnalatori, di Sciascia. Credo l’avesse comprato mio papà almeno vent’anni fa. Mai aperto in vita mia.  Uno di quei libri che sono sempre stati lì.  Breve, era breve. E poi ho guardato la quarta di copertina: nella notte del 1 ottobre 1862, a Palermo, 13 persone sconosciute tra loro vengono accoltellate in 13 punti diversi della città. Mi ha intrigato, così mi sono messo a leggerlo.

Ero a pagina 17, nel punto in cui Sciascia elenca il nome dei pugnalatori: Angelo d’Angelo, Pasquale Masotto, Gaetano Castelli, Giuseppe Calì, Giuseppe Girone, Antonino Serina e…

E qui mi sono fermato. Come di fronte a un lampo. Ecco, sì: Antonino Serina. Quel ragazzo che avevo conosciuto al mare, quello con la maglia viola e la ragazza di Ravenna, si chiamava proprio Antonino Serina.

Dopo un’intera giornata a scervellarmi, il suo nome mi è giunto su un piatto d’argento. Come un sms da un numero sconosciuto. Anzi: da un cellulare inesistente. Pazzesco, ho pensato. E sono andato avanti a leggere.

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Il primo Raduno Nazionale dei Polemici

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A dispetto delle polemiche sulla location, sulla data e sulla scaletta dei lavori, si è svolto ieri a Roma il primo Raduno Nazionale dei Polemici.

Così il Presidente, all’apertura dei lavori: “Cari colleghi, vorrei iniziare esprimendo il mio disappunto per la decisione della sezione lombarda di non partecipare a seguito delle numerose polemiche sulla mia direzione di questo Raduno. Lasciatemi dire che è anche alla faccia loro che gioisco nel vedere questa platea così affollata.”

Qualche fischio in sala. Un signore con il loden esce scuotendo la testa e sussurrando: “dovevamo sentire anche questa…”

Il Presidente: “Cedo subito la parola al nostro primo relatore”.

Il relatore: “Cari colleghi…”

Un uomo dal fondo: “VOCE!”

Il relatore sospira snervato, poi riprende: “Cari colleghi, buongiorno!”

Una signora si alza con un sorriso amaro e grida: “Ma buongiorno un cazzo!”

La sala viene travolta da una standing ovation. Applausi e fischi. Qualcuno grida: “Se dite così non sapete come va l’Italia!”

Nel trambusto, un signore allampanato si porta con fastidio le mani sulle orecchie finché non ottiene l’attenzione: “Scusate, colleghi, ora non vorrei fare polemiche inutili, però se applaudiamo ogni singolo intervento, giusto o sbagliato che sia, qui diventa una giungla!”

Un gruppo di signori col marsupio e gli zainetti esulta, annuisce platealmente e accenna un applauso, fermandosi poi di colpo. Ma il relatore sbotta: “Ascolta, Egidio, le tue polemiche le conosciamo bene. Non fanno neanche lo sforzo di non sembrare pretestuose. Sono polemichette. E oggi abbiamo polemiche ben più grosse da affrontare!”

La platea insorge. Qualcuno ride con superiorità, qualcun altro dice: “Cosa ti dicevo? Non cambieranno mai!” Finché non è il Presidente a riprendere la parola:

“No, ragazzi, però così non concludiamo nulla.”

La platea, questa volta, si compatta in un sonoro: “E ALLORA VAI AVANTI TU!”, dopodiché inizia a formicolare, a imbottigliarsi nel corridoio e infine defluisce dalla sala.

L’ultimo suono che si sente è un sibilo: “Domani la leggeranno, la mia mail”. Poi il silenzio. Il Presidente pregusta il comunicato-stampa: “Si è svolto ieri, a Roma, il primo Raduno Nazionale dei Polemici. Gli organizzatori esprimono grande soddisfazione”.

Incontrarsi a Roma

Mi piacerebbe venire da voi in Italia. Ho un assegno di 17 miliardi da distribuire a Saipem, Fincantieri, Ferrovie dello Stato, Danieli, Condotte e Gavio.

Ti aspettiamo. Quando arrivi?

Non lo so, a dire il vero sono un po’ dubbioso.

Sull’assegno?

No, sul venire. Ho paura che poi la sera mi venga il magone.

Ma se è per questo non c’è problema. Ti faremo sentire come se fossi a casa tua!

Siete carinissimi…

Aspetta! Che ne dici di una bandiera verde e rossa all’uscita dell’aeroporto!? O di uno che ti saluti dicendo… aspetta eh… : “Khosh Amadid!!!”

Sarebbe carinissimo. Davvero accogliente. E sui diritti civili cosa potete fare?

Come scusa?

Dico, sulle violazioni dei diritti civili, cosa potreste fare per farmi sentire a casa?

Ehm… cavolo… Ti confesso che qui mi metti a disagio. Non so… Potremmo censurare delle opere d’arte che a noi sembravano okay già nel II secolo a. C. Che te ne pare?

Naaa… Questo non basterebbe a farmi sentire a casa. Pensavo a qualcosa più – tipo eseguire 980 esecuzioni capitali in un anno. Potreste?

Oddio, adesso mi metti a disagio… No, non credo…

Uffa… Potreste arrestare 19 giornalisti e farli sparire in una cella? Eh? Che ne direste di contravvenire alla Convenzione Internazionale sui Diritti del Fanciullo?

Davvero, mi metti a disagio… No, non possiamo…

Almeno stabilire un bel reato di “guerra contro Dio” e usarlo per torturare gli omosessuali e le ragazze che chiacchierano in pubblico coi maschi? Amputare gli arti a chi non rispetta la shari’a.

No, davvero, mi spiace. Non possiamo…

Uffa. E va bene: allora vada per la censura delle opere d’arte del II secolo a. C. Che ppalle, però.

 

rohani

 

Finalmente ho trovato un lavoro serio

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Finalmente ho trovato un lavoro serio.

E’ per una catena russa di discount che vorrebbe radicarsi nel mercato italiano.

Il mio ruolo è vestirmi in modo distinto e andare nel reparto macelleria a ordinare la carne. Il responsabile dell’ufficio marketing mi ha detto che è fondamentale che io mi esprima coi modi discreti di una persona della media borghesia. E’ importante che io manifesti grande agio e naturalezza. Come se stessi dicendo: “vengo ad acquistare le salsicce per la mia famiglia in questo nuovo discount russo e sono una persona distinta, perché non c’è nulla di sconveniente, per le persone distinte, ad acquistare la carne in questo nuovo discount russo”.

Funziona! Sono così credibile che gli altri clienti mi hanno già rapinato tre volte.

Razionalizzazioni secondarie

Quando un amico mi racconta di una vicenda che gli è capitata, c’è spesso un momento in cui abbassa la voce, si guarda intorno con fare circospetto e apre l’inciso: “…e qui, ti devo confessare che ho pensato una cosa davvero brutta…”

Quello è il momento in cui io vorrei che il tempo si dilatasse come in Matrix. Lui a rallentatore inizia a dischiudere le labbra per far fuoriuscire la confessione, ma in modo così lento che io ho tutto il tempo per sedermi nella mia introspezione. Affondo nel mio pozzo nero e immagino me, nelle sue medesime condizioni e con le sue medesime pressioni, per capire quale sarebbe il mio pensiero “davvero brutto” in quelle circostanze.

A quel punto il tempo può ripartire, anche perché io sono in trepidante attesa: l’amico spiattellerà la sua porcheria e io la confronterò con quella che avrei pensato io.

Ecco, quello è il momento in cui posso collocare la mia interiorità, come un puntino rosso con la scritta “tu sei qui”, nella cartina del thanatos umano. Per me è una sorta di esercizio spirituale. Un modo per costringermi a un’introspezione severa e senza sconti.

Se il mio pensiero è più brutto del suo, non ho dubbi. E’ lui che è un ipocrita.

freud

Il Culo Edizioni

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Se come me siete degli scrittori esordienti, mi capirete al volo quando dico che questo mondo si compone di scelte e di rinunce. Quando hai la fortuna di ricevere più offerte di pubblicazione, e le metti tutte sul tavolo per compiere la tua scelta, consideri assolutamente ovvio il fatto che nessuna di queste, presa singolarmente, combinerà tutte le condizioni necessarie per un progetto editoriale serio. Alcune ti offrono una buona tiratura, ma ammettono di non poter garantire la promozione dell’opera (“lei, di suo?, come se la cava con internet? Ce l’ha un megafono?”); altre garantiscono una rilegatura decente, ma anticipano che il loro distributore non esce dal territorio regionale (e stiamo parlando del Molise); alcune garantiscono royalties superiori al 6% , ma spiegano che per farlo devono vendere il tuo libro a 48 euro più IVA (“ma non si preoccupi, abbiamo già identificato una fascia di mercato rappresentata da Marcello Dell’Utri”); altre dicono che sono in grado di curare rilegatura, tiratura e promozione, ma che per scelta politica non hanno un contratto con un distributore, dunque possono vendere il libro solo a chi va da loro a prenderlo (insieme alla ricotta affumicata che fanno nella stessa malga). Così devi scegliere tra più rinunce, valutando quale comprometterà meno la tua performance nel torneo di calcio saponato degli Scrittori Esordienti.

È un gioco di equilibri talmente delicato che a volte, pur di poter decidere con maggiore leggerezza, ti trovi a cercare il peggio, il punto debole così debole da tagliare la testa al toro, donandoti un criterio con cui escludere tutte quelle opzioni una dopo l’altra, fino a trovarti con una sola carta in mano e valutare che, sì!, quella è la migliore d'annunzio.jpg(d’altronde sei persuaso che per diventare il nuovo Poeta Vate d’Italia si debba pur cominciare da una regione, e che il Molise, letterariamente parlando, sia l’avanguardia della Nazione).

Ebbene, vorrei descrivere il cruccio in cui mi trovo da quando ho ricevuto la proposta di pubblicazione da parte di una casa editrice che mescola i pro e i contro in maniera così sottile da impedirmi una valutazione distaccata delle sue potenzialità. Il problema non riguarda le garanzie contrattuali – ma, anzi, proprio questo è il punto: che stiamo parlando di una casa editrice che, per la prima volta da sempre, e riuscendo quasi a commuovermi, mi offre tutte le condizioni editoriali per spiccare il volo, ma che tuttavia mi lascia un po’ perplesso a causa di un aspetto probabilmente frivolo: tale casa editrice ha un nome spiacevole (non credo sia determinante, ma per dover di cronaca lo preciso: si chiama “Il Culo Edizioni”).

Lequeu

Ora, io spero sinceramente che possiate mettervi nei miei panni e non balzare subito alla conclusione che io sia uno di quei tipi con la puzza sotto il naso, o, peggio!, un superficiale. Vi posso garantire che sono assolutamente conscio della fortuna che mi è capitata e che un nome spiacevole non compromette la sostanza, seria e professionale, di quello che mi viene offerto. Dopo che mi sono documentato, non posso negare che, in questo senso, Il Culo Edizioni è veramente una buona casa editrice. Sono inoltre certo che rappresenterebbe il salto di qualità nella mia carriera di scrittore, inserendomi negli ambienti giusti, offrendomi una buona visibilità e garantendomi degli interlocutori con cui crescere. Tuttavia, mi risulta egualmente difficile abituarmi alla sgradevolezza del suo nome: Il Culo Edizioni.

Ho provato a rompere questo indugio concentrandomi sul futuro. Ho immaginato me a cinquant’anni, rancoroso e frustrato, che pubblico le mie storie su libri che si sfaldano ancora prima di essere venduti, con copertine disegnate con paint su una tiratura di venticinque copie; ho pensato a mia moglie che cerca di essere comprensiva, ma che nel frattempo cova dentro di sé una rabbia di ruggine per come sono stato frivolo, oscenamente stupido, a buttare via la mia carriera perché mi sono fossilizzato su un nome. Così ho concluso che sarebbe davvero stupido rinunciare a una pubblicazione con Il Culo Edizioni.

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“Quello di Elia Rossi è il miglior libro pubblicato dal Culo.”

D’altro canto mi sono immaginato da Corrado Augias, a rispondere alle sue domande parlando di Paul Auster e delle Lezioni Americane di Calvino, immerso negli applausi del pubblico che sanciscono il mio ruolo di scrittore, e quando ho immaginato Corrado Augias che conclude l’intervista alzando verso la macchina il mio romanzo – scintillante, bellissimo, con una rilegatura in oro! –  e grida: “Elia Rossi! Tra le ali di un angelo! Il Culo Edizioni!”, ecco, devo confessare che ho trovato quel nome davvero sgradevole, e che mi sono trovato punto e a capo nel mio dilemma.

Insomma, è una situazione che mi lascia piuttosto perplesso e spero di non prendere decisioni avventate. Ne va della mia carriera, da un lato, e della mia credibilità, dall’altro. Mi confonde molto, e mi getta in un abisso di sensazioni contraddittorie, la fantasia di me che passeggio per strada e che vengo fermato da un vecchio conoscente che mi dice:

“Cavolo, ma ho sentito che questa volta hai sfondato! Mi hanno detto che ieri parlavano del tuo libro su RadioDue. Senti, ma, con chi è che hai pubblicato?”

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“Ed è già odor di Nobel!”

“Con Il Culo.”

Sguardo smarrito. Poi:

“Eppure il nome non è mi nuovo.”

E infine c’è l’altro aspetto – probabilmente quello che mi smarrisce di più. Mi riferisco al fatto che la mia opera in questione, ovvero Tra le ali di un angelo, sia, nella fattispecie, un libro per bambini. È una storia briosa, edificante, che racconta con grande discrezione le peripezie di un topolino che perde la propria madre e che la ritrova dopo un periglioso viaggio in un bosco incantato; una storia pensata per la fascia d’età della prima elementare, quella dei bambini che leggono ad alta voce, pronunciando le sillabe mentre le seguono col ditino. Trovo sgradevole l’idea che dei bambini di prima elementare abbiano fra le mani quel mio libro – scintillante, bellissimo, con una rilegatura in oro! – e che sotto al loro nasino ci siano le scritte: Elia Rossi e Il Culo Edizioni.

scuola

“Mamma, cosa c’è scritto qui?”

Così, questa mattina, dopo molti giorni in cui leggevo e rileggevo quel contratto senza venire a capo di una decisione, ma anzi impastoiandomi sempre di più nel gioco infinito dei tuttavia e dei però, ho deciso di telefonare alla redazione de Il Culo Edizioni. La mia speranza era che il numero fosse inesistente, o che la centralinista mi rispondesse, ansimando platealmente, dalla Moldavia, così che io trovassi finalmente il granello negativo capace di far precipitare il gioco. Invece ho sentito una musica di Brahms e una voce registrata che diceva:

“Risponde la segreteria telefonica de Il Culo Edizioni. Lasciate un messaggio e verrete richiamati non appena uno dei nostri telefonisti sarà disponibile.”

Ho sparato grosso e ho detto che volevo parlare col Direttore, così da concludere che erano inaffidabili se non mi avessero ritelefonato entro una settimana. Dopo neanche cinque minuti il mio telefono è suonato:

“Dottor Rossi?”

“Sì?”

“Sono Attilio Robellotti della Loggia. Direttore de Il Culo Edizioni.”

E io ho dovuto riconoscere che, anche sul piano della comunicazione, Il Culo Edizioni è assolutamente professionale. Ho pensato che non fosse il caso di menare il can per l’aia e ho parlato in modo assolutamente sincero al dottor Robellotti della Loggia.

“Io non vorrei davvero essere indiscreto, ma le posso fare una domanda?”

“Mi dica dottor Rossi.”

“Le posso chiedere il perché di questo nome?”

Il Culo Edizioni?”

“Esatto…”

Silenzio. Poi:

“In che senso, scusi?”

“Perché avete deciso di chiamarvi così…”

“Così nel senso di Il Culo Edizioni?”

“Ecco…sì…”

“Suppongo perché siamo una casa editrice. Se ci fossimo occupati di altro, avremmo potuto chiamarci, non so, Il Culo Onoranze Funebri, non trova?”

“Tuttavia, visto che è così gentile, mi piacerebbe sapere anche il perché dell’altro nome…”

Il Culo?”

“Ecco… sì…”

“Non c’è una ragione precisa. Ci saremmo potuti chiamare anche L’Astrolabio Edizioni, o Asclepio Edizioni. È un nome come un altro.”

“Ma siete nati come casa editrice umoristica?”

“Assolutamente no. Noi non crediamo nell’umorismo. L’umorismo è stupido. Non interessa vendere libri stupidi, a noi de Il Culo Edizioni.”

Insomma, è andata a finire che il mio cruccio non si dissolto e a me non resta che lambiccarmi fino allo scervellamento, in questo stallo di pro e di contro che mi logora fino a sfinirmi e che vede il mio tempo sfumare come polvere, tempo che potrei usare per scrivere, per pubblicare, per promuovere – per costruirmi una carriera di scrittore, insomma; e che invece uso per maledire il dannato sapore delle parole, che a volte è capace di far precipitare gli uccelli, altre di far volare i maiali.

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